Giacomo Biggi “U Paulin”

Il 4 febbraio 1924 moriva a Genova, assistito dalla moglie, dalle figlie e dai nipoti, Giacomo Biggi, detto «u Paulin». Aveva 81 anni. Sono pochi oggi, in paese, coloro che lo ricordano per averlo conosciuto di persona: cinquant’anni sono tanti, sono una vita, e i ricordi si appiattiscono, i contorni delle cose e delle persone sfumano, costretti dalla legge ferrigna del tempo. Ma molti lo ricordano per averne sentito parlare da i non più giovani e il loro giudizio è costantemente intonato a sottolinearne la fede inconcussa, la capacità di affrontare dolori e povertà, l’affetto profondo che lo legò alla famiglia e al paese, la bonaria arguzia con cui sapeva condire di sale, di sentenze, di proverbi, i casi della vita, le contingenze del quotidiano per renderli più comprensibili o accettabili smussandone le asperità. Se ne tento un profilo, per forza di cose incompleto e un po’ mitizzato come tutto ciò che ubbidisce alla suggestione del ricordo, non è solo per legittimo affetto, per tramandare il ricordo e il rimpianto della sua bontà, ma anche per la fiducia che l’esempio di tante civili e umane virtù susciti rispetto ed emulazione nelle nuove generazioni, in un impegno di vita serio e tenace.

Era nato nel 1843, da famiglia poverissima, da lungo tempo trapiantata a Fontanarossa e proveniente (come tutto il gruppo di famiglie dette dei «Ferrà») da Canale; i suoi antenati vivevano qui già alla fine del ‘600, quando il cognome era ancora, alla latina, «De Biggis», come ricordo di aver trovato scritto nel registro parrocchiale dei battesimi – matrimoni – morti, tanti anni fa, dopo lunghe e attente ricerche condotte col defunto parroco Don G. Sacchero. Donde provenissero i Biggi di Canale-Fontanarossa, non mi è stato possibile appurare: forse erano di origine spagnola, forse fiorentini (i «Bigi» erano i seguaci del Savonarola esiliati dopo il 1498) forse ferraresi e forse più antichi ancora, se è vero che, come è documentato nella «Origine storica, etc.» di F. Grillo, i Biggi avevano «Facoltà di traffico» in Genova già tra il 1250 e il 1500. Ciò che è certo e sicuro è che «U Paulin» era di solida stirpe contadina, forte e tenace, sana e sobria come lo sono ancora i nostri montanari. Fin da giovane sperimentò la dura legge della necessità: una poverissima casupola (più tardi ingrandita e abbellita) all’estrema periferia del paese, pochi appezzamenti di terreno, qualche ma­gra e rossa vaccherella, poco pane e scarso, patate e castagne per dodici mesi all’anno, l’estenuante quotidiana fatica della zappa, della falce, della roncola; ma anche tanta serenità in cuore, data dalla fede in Dio e dalla fiducia degli anni giovani. Ventenne sorteggiò un numero «alto» e dovette partire soldato a undici anni come usava allora. Congedato nel 1872 col grado di caporale e un accredito di lire 56 e soldi 13, la lunga permanenza sotto le armi fu fondamentale per la sua formazione. Fu a Palermo, nella rivolta del 1863, quando la carne dei «piemontesi» massacrati si vendeva a tanti «tarì» il barile; fece la estenuante guerra del brigantaggio; nel 1866 fuggì dall’esercito regolare con un compagno di Volpedo, di cui mi sfugge il nome ma di cui conservo la fotografia: erano amicissimi e volevano andare con Garibaldi: raggiunsero Bezzecca dopo peripezie varie, quando però la battaglia era finita e vinta… ma videro «il generale Garibaldi» proprio a due passi di distanza, mentre avanzava a cavallo, con un gran mantello rosso, una lunga piuma sul cappello, la spada inguainata poggiata di traverso sulla sella, terribile nel volto come l’angelo vendicatore (quando il nonno mi raccontava di questi e di tanti altri fatti, la sua commozione era ancora vivissima ed io non finivo mai di chiedere «e poi nonno», «ancora nonno» e lui felice e paziente, ripeteva, raccontava…). Rientrato nei ranghi imparò a leggere e a scrivere e si fece da autodidatta una discreta cultura, successivamente perfezionata, fino al punto che leggeva senza difficoltà anche il latino, almeno quello ecclesiale. Congedato, sposò Domenica Zanardi, sana e forte figura di donna proveniente da Alpe, imparentata per parte di madre con i Toscanini di Bogli, quelli del famoso musicista. Dal matrimonio nacquero due maschi e tre femmine: altre, troppe bocche da sfamare, ma c’erano la gioia serena nel cuore, tanta fede nella Provvidenza, tanti calli nelle mani, ma infinita dedizione per la famiglia e per tutti.

L’anno stesso in cui morì suo padre (caduto da un dirupo mentre raccoglieva erba nella lontana «Burina» proprio là ove esiste ancora una croce sul posto della disgrazia fu mio nonno a scoprirne il cadavere proprio sul greto del Terenzone, mentre tutta la gente del paese chiamata dalla campana a martello cercava altrove) aprì a sue spese una scuola serale per adulti, la prima a Fontanarossa. Conosceva l’importanza dell’istruzione e voleva che anche i suoi compaesani l’apprezzassero e la possedessero e si dava da fare, spronando, incoraggiando, bonariamente brontolando, sordo alle critiche di chi lo tacciava da «letterato» e tollerante verso chi non gli poteva pagare la lira al mese corrispondente alla retta che egli chiedeva per tener accesi ben due lumini ad olio (la scuola si faceva di sera nei mesi invernali) fornire quaderni, penne e inchiostro. C’è ancora qualcuno in paese tra i più anziani, che ha imparato da lui a leggere e a scrivere e a far di conto.

Poi la sua più grande impresa: amante del sapere come ho detto, fiducioso nella elevazione dello spirito attraverso la cultura, pronto ad ogni sacrificio pur di migliorare anche socialmente la famiglia, nonostante le resistenze dei congiunti e l’aperta derisione o incredulità dei compaesani, decise di afrontare ogni fatica e rischio perché almeno una delle sue figlie diventasse maestra elementare. La Provvidenza lo aiutò e gli fece trovare chi prestasse il denaro necessario: la sua primogenita Adele, tanto bella quanto intelligente e volenterosa entrò nella scuola normale di Bobbio insieme con la figlia del farmacista di . . ., con la nipote del medico o del parroco di . . ., o la cugina dei ricchi commercianti di. . ., per uscirne anni dopo col diploma d’onore ed un posto di maestra a Carpeneto di Fascia, a lire 430 di stipendio annuo e successivamente a Genova, con lire 130 di stipendio mensile. Fu la più grande gioia nella vita del nonno: la prima maestra di Fontanarossa e di tutta l’alta Val Trebbia (seguita dalla Faggioli di Gorreto, dalla Zanardi di Alpe, dalla Biggi di Isola, dalla Pelucchi di Rovegno, dalla Ferretti di Fontanigorda, dalla Fontana di Bertassi e successivamente da tante e tante altre) era sua figlia, che onorava la sua casa e il suo paese. Non gli pesavano i debiti che si estinguevano con lentezza, non gli dolevano i calli che sempre più si indurivano sulle sue forti mani di lavoratore e gli anni già numerosi non incurvavano la sua figura snella e asciutta ma aggraziata e forte, né alteravano il suo spirito perennemente teso all’amore verso il prossimo, alla fiduciosa confidenza con gli altri, alla carità fraterna verso gli umili e i derelitti. Furono gli anni più felici e sereni e furono gli ultimi, altri ne vennero, troppi, tutti tristissimi: una figlia morta nella lontana America dove si era recata per diminuire di una le bocche da sfamare, un’altra figlia legata ad un matrimonio disgraziato, ed infine la guerra, la tragedia della Prima Guerra Mondiale dove tutti e due i suoi figli, Bartolomeo e Luigi persero la vita. Non ho mai visto piangere il nonno, né l’ho mai sentito recriminare; sospirava a volte quando mi parlava di mio padre e mi guardava a fondo negli occhi, con i suoi occhi buoni e dolci e mi diceva di studiare e di farmi un uomo, perché lui era vecchio ormai e c’era bisogno di un uomo in casa e mi diceva tante altre cose che non capivo ma che ero fiero mi fossero dette. Mi insegnava a servire la Santa Messa, ad amare Dio ed il prossimo e mi voleva con se in chiesa, nel coro, quando con la sua bella voce cantava le preghiere e gli inni delle Sacre Funzioni. Fui presente alla sua morte: «la morte del giusto», come disse il frate che lo assistette, recitando con lui le preghiere degli agonizzanti. Le ultime parole che gli intesi pronunciare distintamente furono «u mi’ Pascualin» il nome famigliare del suo figlio primogenito, morto in guerra, lasciando orfani tre bambini in tenera età, il nome di mio padre.

B. G.

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