Carlè (Carlo Guaraglia)

Chi non ha conosciuto Carlè di Fontanarossa? Solo i giovanissimi.
In tutta la Valle Trebbia da Genova a Piacenza e Val Bisagno, in Val Borbera, bastava pronunciare « Carlè di Fontanarossa » per sentirsi rispondere – lo conosco-. Dagli Stati Uniti d’America, specialmente dalla California, bastava indirizzare una lettera, un plico a « Carlè Fontanarossa Italia » che la missiva arrivava senza disguidi, diritta e in tempo normale, al destinatario.

La sua figura fisica — Di statura media. piuttosto pingue, colore olivastro, collo corto. taurino, due folti baffi spioventi sotto un forte naso rincagnato, tutt’insieme, di corporatura tozza.
Si presentava, con fra i denti l’eterna lunga pipa di gesso, che puliva sovente battendone leggermente il fornello sull’unghia del pollice della mano sinistra, chiudendola quindi per brevi intervalli tra una pipata e l’altra, nel salvapipe o astuccio di legno che, teneva costantemente infilato nella cintura dei calzoni.
Vestiva con la semplicità dei montanari: portava un cappello che, un po’ per l’uso un po’ per la forma, definirei a cencio; una camicia di flanella o di cotone che gli confezionava mia mamma; mai visto con la cravatta, calzoni di fustagno rimboccati alla caviglia, stretti ai fianchi da una cintura di stoffa morbida detta zenta, della lunghezza di circa due metri aggirata ai fianchi in modo che i due fiocchetti o frangie delle due estremità pendessero per sei o sette centimetri sulla anche. Un panciotto tenuto fermo da un solo bottone al livello dell’ombelico, con quattro taschini deposito dei fiammiferi di legno e del pacchetto (boetta) di trinciato forte per la pipa. Calzava un paio di scarpe di vacchetta. Forse non ha mai indossato una giacchetta: anche nei rigidi giorni invernali; più per averla che per indossarla, quando discendeva giornalmente a Gorreto, se la buttava talvolta sulle spalle.
Era ufficiale postale: tutti i giorni, verso le ore otto, slegato il fedele mulo, gli indossava la bardella, a cui fissava il sacchetto della posta in partenza, sigillato di rossa ceralacca e timbri, s’avviava quindi verso Gorreto, sette chilometri, quattordici andata e ritorno, di impervia mulattiera. Per quanti anni? Quanti chilometri ha percorso? Cinquantamila? centomila? Non ho elementi nemmeno approssimativi per un calcolo che non sarebbe impossibile fare.
Figura morale — Aveva sposato una sorella di mia madre, Luigina – l’altra sorella Rosina – che fu la madre di Guido, aveva sposato il fratello di mio padre Luigi. La zia Luigina di cui non ne ricordo le sembianze, essendo scomparsa quand’io ero ancora molto piccolo; dicono che era una bella donna: morì a soli 34 anni se non erro, in seguito ad un drammatico parto trasformatosi in tragedia, forse per fatalità di cose, o imperizia di medici o di presuntuose praticone che in quei tempi, per mancanza di comunicazioni, di assistenza, si improvvisavano levatrici.
Lasciò, la sua scomparsa, nella costernazione lo zio Carlè con cinque figli: Luigin già scomparso, Pipin morto a San Francisco in California, Matilde ved. Campi, Rodolfo detto Tedesco e Leopoldo, minorato, vissuto appena qualche anno. Mio zio Carlè era un uomo intelligente come il fratello Don Francesco prevosto di Campi; era un uomo di gran cuore generoso, ospitale.
In casa Carlè c’era anche l’«Osteria» che fu sempre un porto di mare; dove chicchessia trovava ospitalità e sovente gratis.
Di quella sua ospitalità, i parenti poveri… o gli scrocconi maliziosi spesso ne abusavano; egli vedeva e sapeva, non reagiva mai, sorrideva di quelle meschinità e con un gesto della mano cancellava il conto…
Avrebbe potuto, se non essere ricco, almeno migliorare le sue condizioni finanziarie, se appena avesse voluto disciplinare un poco la sua liberalità.
Non volle mai farlo, perché, se lo avesse fatto, non sarebbe più stato il Carlè che godeva di immensa stima e popolarità da parte di quanti lo conoscevano. Frequentava poco la chiesa pur avendola molto vicina; ma aveva una profonda fede religiosa, che professava e manifestava senza rispetti umani, in qualsiasi momento del giorno e in qualsiasi luogo. Al suono della campana di mezzogiorno, dell’avemaria, ovunque si trovasse per istrada, in piazza, in casa alla presenza di chiunque, si scopriva il capo e recitava l’Angelus interropendo la conversazione con chiunque l’avesse avviata, fosse stato anche il Principe Centurione. Ha ricevuto elogi dagli ispettori postali per la sua dirittura morale e per la scrupolosa attenzione che metteva nel disimpegno dei suoi doveri d’ufficio, senza mai ricevere un appunto un richiamo per un errore. Dopo tanti anni di lavoro onesto, tanti chilometri di mulattiera percorsi nelle condizioni più disagiate, sotto le intemperie o la sferza del sole; meritava un attestato di benemerenza, una modesta onorificenza solo a titolo di distinzione, non di ricompensa che avrebbe senz’altro rifiutata. Penso di sì. Ma chi vi ha mai pensato?
Caro zio Carlè, quanti oggi sanno vivere come hai vissuto tu, con la stessa tua semplicità e bontà, con la stessa tua quadratura morale, con la stessa sincera e meritata stima? Ti ricorda con commozione questo tuo nipote a cui hai voluto bene in modo particolare, ti ricorda come confidente amico, e come prete.

Carlè e suo suocero Péle

A Fontanarossa, cercare Tizio o Caio attraverso il cognome, nome paternità ecc., è impresa meno facile che cercarlo nella selva dei soprannomi. I cognomi non sono molti, vaste le parentele in cui si ripetono di padre in figlio e nipoti gli stessi nomi; per cui son facili e numerose le omonimie che creano confusione. La via più spiccia e sicura, è quella del soprannome o casato a cui l’individuo appartiene; facendo precedere alla citazione del medesimo, le lettere, — di o dei — per esempio. Carlin dei Tagli, Pipin dei Cuniti, Armando dei Ferrie’.
Sono pochi gli uomini e i giovani che non portino un soprannome più o meno curioso, più o meno strambo, di origine indefinibile, comunque pratico, spiccio, nel linguaggio confidenziale un po’ scanzonato, d’una comunità di piccolo paese, dove si vive a contatto di gomito giornalmente; e dove sentirsi chiamare: Pianta o Mulita non costituisce una offesa o un dileggio. Se io per esempio cerco Campi Giacomo, perdo tempo; se invece dico «Bidego», immediatamente scatta una specie di proiettore nel mio cervello che mi inquadra Campi Giacomo di Nenne e, mi par di sentirne anche la voce. Un breve elenco di soprannomi di individui viventi credo che potrà far piacere, anche per sottolineare l’estrosità dei termini.
Pianta, Mulita dei Cuniti, Mulita dei Puloli (mio casato), Tedesco, Mario dei Tagli detto Mortara, Mucci, Cuego, Giambetta, Giacobbe, Bidego, Cavigio, Miscì, ecc. Molti altri che tralascio per non dilungarmi troppo.
Nessuno di costoro si offende sentendosi chiamare con questi termini o sapendosi messo in caricatura. Chi volesse trascorrere qualche serata allegra, in sonore risate per far buon sangue, provi a radunare attorno a un tavolo, davanti a qualche buona bottiglia di barbera, i seguenti spassosissimi tipi: Caviggio, Bidego, Tedesco, Piccin, il novantenne bersagliere di ferro ancora vigoroso lavoratore; li inviti ad imitare Tizio o Caio, si troverà davanti ad altrettanti Noschese..
Tutti uomini intelligenti, cordiali, generosi, ospitali, aperti nel tratto e stimati. Un breve elenco dei morti? Eccolo: u Bisciallo, Muse, Sipe (padre e figlio); Poliun, Ciora, Ruscin, Carazzin, Stecca, Carle, Talera, Giovanin dei Nicoli, Pineta, Binelin, Gragnuera, Praneigrin, Prève, Vigo, Quadro, Pitè, Gabin, Mestrangelo, Pipaccia Barattieri, Bursa e L’Agliè ( due caratteri difficili ), Gioàne, Bursin, il Siro detto (Cisca), Tuognu du Moro, Péle mio nonno materno, a cui volevo arrivare.

Mio nonno materno detto «Péle» (o Piele) era suocero di Carlè, di cui in un pre­cedente scritto pubblicato in questo bollettino, ho descritto la figura fìsica e morale, non il carattere. Era Carle, un carattere ottimista, puntiglioso forse, incline allo scherzo, amava combinare qualche innocuo dispetto ad amici o anche a parenti, per il sol gusto di variare la solita cronaca paesana: qualche volta però i suoi piani strategici, si concludevano in umilianti sconfitte, come quando volle sceglier come vittima il suocero. Campi Giacomo « Piele », aveva sposato una Guaraglia dei Tagli, la chiamavano nonna Colettin; era una donnina esile, pulita, gentile con un bel volto bianco, una figura distinta che camminava leggera come una fata. Trattava il marito col voi; egli la rispettava, la stimava e l’amava. Lui era un carattere forte, lavoratore, di poche parole, assai temuto, austero, severo, un po’ brontolone, saggio nel giudizio, perspicace e deciso nella azione, ma prudente. Noi ragazzi, avevamo di lui un timore riverenziale, ci chiamava « bardasciammi »: quando passava vicino, se avessimo fatto chiasso, si zittiva passandoci sottovoce il suo sopranome: «ghè Piele».
E pensare che, era con i bambini bonario e comprensivo; tuttavia incuteva timore, si era incapaci di prendere confidenza con lui. Quando eravamo in chiesa e, alle spalle ci accorgevamo della sua presenza come quella del Carazzin ex sindaco, altro campione di severità, non si fiatava, si restava come paralizzati.
Era mio nonno Piele di media statura, di corporatura solida, lo ricordo un po’ curvo, il volto ovale con un naso forte ed adunco: — portava un giacchettone che potremmo definire un trequarti… fornito di ampie tasche dove affondava nodose mani, la pipetta e il pacchetto di trinciato forte, ma non fumava molto, forse per risparmiare. Quasi tutte le sere si recava all’osteria del genero per trascorrervi qualche ora e riveder la figlia Luigina.
Una sera Carlè venne a sapere che il suocero sorpreso dal buio del mese di novembre, aveva lasciato nel bosco un carico di foglie secche ( fogliazzo ), che ancora oggi si usano per preparare il letto alle bestie. Aiutato certamente da qualche complice, andò sul posto e, a mezzo di funi, issò il carico (gabiun) all’altezza di diversi metri, incastrandolo nella biforcazione di grossi rami di un castagno. Il mattino seguente di buon’ora, il suocero va con i buoi aggiogati per trascinare a casa il carico e lo trova sull’albero: ritorna sui suoi passi un po’ stizzito, fingendo di nulla con chi incontra; solo alla moglie, brontola: «So ben io chi è stato». Carlè che credeva che tutto fosse andato liscio, non sta nella pelle dalla gioia e già pregusta la reazione del suocero, quando alla sera arriverà all’osteria. Alla sera difatti il suocero arriva, e come al solito va a sedersi in cucina dietro il tubo della stufa; è calmo, impassibile, nulla traspare dal suo volto: accende la sua pipa, conversa come sempre con i presenti. Carlè gioca alle carte, guarda sottecchi il suocero ma nulla accade, il fatto è ancora segreto. Carlè incomincia a dubitare fortemente sulle intenzioni del suocero, o più precisamente teme una reazione a quattr’occhi del medesimo e, già è propenso a credere che l’impresa sia fallita.
Dopo qualche ora il suocero si alza per far ritorno a casa, esce dalla cucina, nel corridoio si ferma chiama Carlè che, a malincuore e non senza timore butta le carte e si presenta: poche parole suonano chiare e categoriche che non ammettono replica, al suo orecchio: «Di’ galantuomo, vai a tirare giù il gabbione, domani mattina presto devo andare a prenderlo ». Carlè resta impalato, muto, incapace della minima reazione. Un fiasco completo — Piele si avvia verso casa sorridendo e pensando in cuor suo: «Son più vecchio di te, cioè non me la fai» .
Un giorno il Siro (Cisca) comica figura con la eterna cicca in bocca, un miscuglio di furberie, di fantasticherie, di ingenuità, sempre in lite od in polemica col suo asino, che chiamava razza grama generato da una tigre…, ma in fondo un brav’uomo, vuole andare a caccia, non ha polvere, lo confida a Carlè che tiene sulla scrivania una ciotola piena di sabbia che gli serve da carta assorbente e, perfettamente assomigliante a polvere nera da sparo, essendo intrisa di inchiostro; prepara un pacchetto col contenuto della medesima e lo consegna al Siro, non senza esaltare la potenza dell’esplosivo e raccomandargli prudenza: «Con questa puoi ammazzare anche la tigre ».
Il Siro possiede un schioppettone a bacchetta (avancarica), più assomigliante ad un trombone di quelli di cui erano armati i bravi di don Rodrigo, che a un fucile da caccia. Ingolfa l’arma della famosa polvere la preme ben bene con stoppacci fatti di pezzi di carta e poi va a caccia. L’epilogo della faccenda è immaginabile, cosi come la divertente reazione del Siro verso Carlè.
Una sera del mese di ottobre, all’alba del secolo, è quasi buio, attorno un silenzio assoluto, Carlè fa una scappata a ricuperare la pipa che ha dimenticato su un tronco di castagno in località Le Pieze; passa vicino al cimitero, ad un tratto sente parlottare a mezza voce, quando si accorge che appena fuori del recinto due poveretti, marito e moglie, che in paese chiamano Giambardin e la Chitarra, stanno raccogliendo delle pere: lui è sull’albero con cavagno e corda, lei a terra per ricevere il recipiente quando viene calato giù dall’albero. Carlè approfitta dell’occasione per combinarne subito una delle sue. Supera facilmente il muro di cinta guardingo e silenzioso, si avvicina al campanile e, attraverso una bassa feritoia del medesimo, incomincia a emettere con voce stentorea lunghi lamenti e gemiti. La voce che sembra venire dall’oltre tomba, rimbomba nella chiesa essendo la porta del campanile aperta. Tutti e due hanno sentito la misteriosa e lamentevole voce, che continua a brevi intervalli ad aumentare di volume. Lui si precipita giù dall’albero col rischio di rompersi il collo, mentre lei terrorizzata tenta di raccogliere qualcosa prima di fuggire immediatamente. Il silenzio ritorna, Carlè attende un poco, poi pensando che i due se ne siano andati, si avvicina al muro del lato nord da cui spicca un salto per uscire e, piomba in mezzo ai due che, col cuore in gola stanno curvi raccattando i loro attrezzi.
Un urlo della signora Chitarra, un’imprecazione del Giambardin che intanto, data la vicinanza e nonostante la fuga precipitosa ha riconosciuto il Carlè. Passeranno mesi prima che l’autore dell’impresa, possa con una certa tranquillità lasciarsi avvicinare dal Giambardin.
Tutti gli attori di questi aneddoti, con in testa zio Carlè, i cui resti mortali riposano da anni — per alcuni da molti anni — in quel nostro cimitero confusi in mezzo a tutti gli altri nostri trapassati, all’ombra di una delle più antiche chiese della zona; abbiano il nostro ricordo, i nostri suffragi, per la pace delle loro anime nella gloria degli eletti.

Don Silvio Moscone

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