1843-1973 Viaggi di due preti fontanarossesi

Ecco la storia, se vi piace leggerla.

Don Francesco Guaraglia, zio di Carlè, della famiglia che vanta oggi numerosa discendenza, nacque a Fontanarossa nel 1823; egli fu, per molti anni, parroco di Spineto nel tortonese, dove morì nel 1910, alla venerabile età di 87 anni.

Il sacerdote così descrive un suo drammatico viaggio da Tortona a Fontanarossa.

«Avevo vent’anni e dovevo recarmi a Tortona per parlare col Vescovo, allo scopo di ottenere l’esenzione del servizio militare (allora i seminaristi erano esenti dagli obblighi di leva); dopo aver conferito con Sua Eccellenza, acquistato il nuovo trattato di teologia morale del Gury, presi la via del ritorno. Partito da Tortona a piedi, mi fermai a Garbagna, certo che, ripartendo il mattino successivo, sarei potuto arrivare a casa in giornata» – Qui calza una parentesi: considerando che tra Garbagna e Fontanarossa, anche sfruttando le scorciatoie, corrono una settantina di chilometri, viene spontaneo esclamare “Che gambe!” – «A Garbagna trovai un compaesano, carabiniere, che si recava a casa in licenza; stabilimmo di pernottare per proseguire assieme il viaggio l’indomani. Si era al principio dell’autunno. Al mattino, svegliandomi, ebbi la spiacevole sorpresa di scoprire che, durante la notte, aveva nevicato; tuttavia, temendo di rimanere bloccati da ulteriori precipitazioni, decidemmo di riprendere il cammino senza indugio: e così, io con la mia teologia, il carabiniere col suo zaino, ci incamminammo. Cammina cammina, quando arrivammo a Marlassino, la neve era già alta un palmo e continuava a scendere con violenza, ac­compagnata da raffiche di vento. Dell’ampia conca tra Pertuso e Gabella non si vedeva nulla: tutto era sparito in un turbinio di nevischio che ci sferzava incessantemente il volto.

Tenere l’alta quota, i crinali dei monti, sarebbe stata una pazzia: avremmo trovato neve più alta, oltre il rischio di smarrirci e di esaurire le nostre già provate energie. Discendemmo quindi a rotta di collo a Cantalupo e poi, lungo la strada, giungemmo a Cabella Ligure. Dopo una breve tappa, riprendemmo la salita, arrancando, con l’energia dei nostri vent’anni, nella neve che si faceva sempre più alta, fino a giungere al valico delle Tre Croci, a quota 1350 metri. Il passo deve il nome alle croci che ricordano tre mulattieri che ivi trovarono la morte, sorpresi dalla tormenta. Schiaffeggiati dalla neve, sfiniti, col fiato mozzo per la dura salita, tormentati dai lugubri pensieri che quelle croci ci destavano, ci sentimmo smarriti. Mi ricordai, però, quasi subito di una cappelletta, poco più in basso verso Fascia, dedicata a San Rocco, alla quale salivano processionalmente i Fasciotti, il 16 agosto. Quella cappella fu la nostra salvezza: la raggiungemmo e trovammo un primo riparo sotto il portichetto antistante. L’imperversare della tormenta ci raggiungeva però anche in quel rifugio semiaperto. Che fare? Sotto il portichetto vi era un pulpito in legno, una rozza pedana poggiata su quattro gambe, che veniva trascinata all’aperto quando il parroco concionava ai fedeli, il giorno del Santo. Divelta una gamba del pulpito, la usammo per scardinare la malconcia inferriata della cappella e guadagnammo il faticato riparo. Inzuppati da nevischio e fradici di sudore, fummo tosto assaliti dai brividi e ci pareva di gelare. Uscimmo nuovamente, mandammo a pezzi il pulpito, portammo all’interno il legname e, sacrificata per esca qualche pagina dell’intonso manuale di teologia, in breve tempo potemmo scaldarci alle fiamme di un fuocherello. La scarsezza del combustibile minacciava però di lasciarci, in breve tempo, in situazione critica; nella cappelletta vi era una vecchia e tarlata statua di San Rocco: il Santo pellegrino, che tanto aveva subito in vita, dovette subire anche in immagine, divenendo ben presto legna da ardere. Tra le tante benemerenze di San Rocco va dunque annoverata anche questa.

Quando a Dio piacque, la bufera diminuì di violenza e riprendemmo il cammino, ora in discesa; Scernavento, la selva e poi il paese. Giunto a casa, dovettero pormi a letto ed applicarmi pezzuole bagnate sugli occhi, abbacinati dalla neve ».

Così si viaggiava nell’autunno del 1843.

Alla distanza di 130 anni, un altro prete di Fontanarossa, il sottoscritto, parroco di Mairano di Casteggio, in condizioni ben diverse di tempo, di mezzi e di clima, compie un viaggio in senso inverso a quello sopradescritto, percorrendo in cinque ore ben 300 chilometri.

Il 1° luglio alle ore 11,30, si parte da Mairano, in compagnia di un giovane amico, abile autista. Attraverso la vallata della Staffora, il Passo del Brallo e dopo una breve sosta a Ponzano Semola, si punta su Fontanarossa: 100 chilometri in meno di due ore. Quattro ore e mezzo di sosta per la refezione e per salutare parenti, amici e vecchie conoscenze e quindi, alle 17,30, si riparte.

Si discende adagio per meglio contemplare il panorama, si varca il ponte e, per la statale 45, si piega a destra verso Genova.

Il nastro d’asfalto che costeggia la Trebbia è liscio, si viaggia ad andatura elevata senza scosse, e, nonostante la calura della giornata, una fresca brezza della vallata rende il viaggio piacevole. Dopo una breve sosta a Isola di Rovegno, per salutare i cugini Molinelli, via per Loco, Montebruno, Torriglia, attraversata forzatamente a passo d’uomo per l’intasamento di macchine e villeg­gianti dato il giorno festivo. Ecco Laccio, si prosegue a destra per Busalla, attraversando Fascia di Carlo, in tristissima valle, Montoggio, sorridente nel piano alberato lungo lo Scrivia, Casella e, poco dopo, il bivio di Savignone, a tre chilometri da Busalla. Dopo una breve consultazione sull’opportunità di imboccare l’autostrada, rischiando di procedere a passo d’uomo sotto il sole sferzante, la decisione viene lasciata al sottoscritto. L’amico tace e, mentre accende una sigaretta, intervengo: «Avvia il motore». «Dove andiamo?» mi chiede. «Saliamo e poi vedrai». Savignone, bellissima borgata, elegante residenza dei Genovesi, poi su, lungo una stradetta ripida, tutte curve: Montemaggio, quindi Croce Fieschi, che attraversiamo lentamente per godere l’ameno paesaggio. Appena fuori dell’abitato, ci fermiamo pochi minuti: con il binocolo inquadro, puntando a nord-est, il Cavalmorone, il Chiappo, il nostro Carmo, l’Antola e un’infinità di paesetti abbarbicati alle vallate occidentali di quelle vette; potrei individuarne la maggior parte, ma il tempo stringe e abbiamo ancora davanti a noi molto cammino. Il mio amico è entusiasta, ma non sa orientarsi: abituato alla pianura, tutte quelle vette, quelle vallate, quei torrenti, costituiscono un quadro mai visto, nuovo, da studiare per meglio apprezzarlo. Discendiamo a fondo valle per una strada tutta a serpentina, con curve a gomito: soventi e brusche frenate ed eccoci a Vobbia che attraversiamo velocemente per iniziare la salita verso la costa della Val Borbera. Attraversiamo Mongiardino, con le frazioni a valle di Roccaforte e Rocchetta Ligure, già importante capoluogo di mandamento; girando a sinistra, raggiungiamo Cantalupo e l’orrida strettoia per Pertuso, intagliata tra le rocce a strapiombo sui precipizi, in fondo ai quali scorre, stretto in pochi metri di alveo, il torrente. Ci sembra di osservare un canyon nordamericano.

Sbuchiamo a Persi, quindi a Borghetto Borbera e, piegando a destra, a Garbagna, in Val Curone. La strada è ombreggiata, fiancheggiata da molti alberi: acacie, robinie, pioppi, querce e platani.

Volpedo e Viguzzolo sono vicini: devia­mo ancora a destra per chiudere il grande cerchio che abbiamo descritto col nostro viaggio.

Rivanazzano, Salice Terme, Godiasco, per prelevare la famiglia dell’amico, e infine Casteggio – Mairano.

Sono le 21,30 di domenica 1° luglio 1973.

I lati amari del viaggio, le constatazioni fatte, le sorprese per ciò che ho visto, non da osservatore distratto e superficiale, ma da attento indagatore di certi grossi problemi del nostro entroterra, cercherò di descriverli la prossima volta.

Don Silvio Moscone

(Brano tratto dal N° 10 del Bollettino di Fontanarossa, 1973)

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